L’unica cosa che Stan Bowers
invidiava ai propri amici, era quella di avere una bella famiglia.
Viveva in una squallida catapecchia alla periferia di Los Angeles. Era
un edificio a due piani di cui solo uno era abitabile, quello al pianterreno,
dove abitava la sua famiglia.
Stan non la definiva una vera famiglia: il padre Al Bowers era un tipo
tosto, testardo come un mulo e molto aggressivo; la madre Emily una donna
debole, sia fisicamente che psicologicamente, per affrontare le giornate
accanto a quell’individuo del marito. In verità tutti e due, madre e figlio,
avevano terribilmente paura del padre; ma non la paura che potrebbe avere un
figlio di fronte al genitore troppo severo, peggio: Al Bowers li picchiava,
tutti e due. Calci, pugni, schiaffi erano all’ordine del giorno in casa loro. E
non c’era modo di sottrarsi. Emily aveva paura che lasciato il marito, non
avrebbe potuto provvedere a mantenere suo figlio e allo stesso tempo aveva
paura che in qualunque posto fosse andata, lui l’avrebbe trovata e Dio solo sa
cosa le avrebbe fatto.
Stan era dello stesso avviso
della madre, ma forse lui poteva avere i nervi saldi per infliggere una
tremenda batosta al padre, perché si fermasse, la smettesse di rendere la loro vita
un inferno. Naturalmente non ne aveva
mai avuto il coraggio.
Lui voleva bene al padre, però nello stesso tempo lo
odiava. Gli voleva bene ogniqualvolta lo portava a vedere i Lakers in città (Al
Bowers era un patito del basket e aveva trasmesso questa passione anche al
figlio), oppure quando andavano al parco a tirare i sassi alle anatre e
mangiare il gelato al pistacchio, oh sì... quello era il suo vero padre.
Odiava
il padre che, tornato da lavoro, non rivolgeva nessuna buona parola alla
famiglia senonché “Emily! Dov’è la cena! Non mi dire che non c’è un cazzo
perché altrimenti ti ficco la testa nel forno e mi mangio quella!”; oppure
“Stanley perché non cambi quel cazzo di canale! Ma che sei cieco! Quelle sono
un mucchio di stronzate! Tutti i film sono delle stronzate! Vattene a letto! Su
forza, togliti dai coglioni! C’è la partita stasera!”, e così via, tutte le
sere.
Stanley amava i giorni in cui il
padre non rientrava a casa il pomeriggio ma restava alla mensa della fabbrica
di scatole in cui lavorava. La casa rimaneva tranquilla, la madre ricamava
canticchiando nella veranda e lui guardava la TV in santa pace, senza essere
costretto a cambiare canale.
Certe notti aveva gli incubi e si svegliava in un bagno di sudore
guardandosi attorno in modo frenetico. Sognava il padre, quasi sempre.
Una volta aveva sognato che Al Bowers lo inseguiva per tutta la casa.
Lui scappava urlando per il terrore e al padre gli si allungava la lingua di
due metri, poi tre, poi quattro, cinque, finché non lo afferrava trascinandolo all'interno delle sue cavità orali per divorarlo.
Aveva sognato anche l’assassinio della madre da parte di Al. Quel
sogno lo aveva traumatizzato. Aveva sperato di non avere il potere di vedere il
futuro, perché avrebbe significato il ritrovarsi con un genitore in meno. Ma
sapeva che quel sogno aveva qualcosa di premonitorio. Sapeva che il buon
vecchio Al, prima o poi, ne avrebbe combinata una grossa. Sì... li avrebbe
uccisi tutti e due, li avrebbe sotterrati nel piccolo orticello e sarebbero
diventati concime per le erbacce di Al Bowers. Ma Stan sapeva che non si poteva
fermare il corso degli eventi. Era il suo destino. Non aveva mai parlato ai
suoi compagni di quello che succedeva fra le sue mura domestiche. Non avrebbero
capito, nessuno avrebbe potuto capire eccetto lui e sua madre Emily.
Per Stan, il destino gli aveva
fatto affrontare un cammino che lo portava a quell’afoso giorno di agosto,
quando tutta la sua vita sarebbe cambiata.
Erano ormai passate le sette di
sera, il padre sarebbe tornato di lì a mezz’ora e Stan stava dando un’ultima
occhiata alla televisione, prima che il padre ne prendesse possesso. Emily
stava preparando la cena per suo marito: del pollo arrosto con patate, come
piaceva a lui. In TV davano “Gli eroi del Texas”, un western con indiani e
Yankees, proprio come piaceva a Stan.
Il padre rincasò poco prima delle otto. Stan quasi non lo riconobbe.
Al Bowers aveva la faccia stravolta, non come le altre sere, questa volta era
peggio. Quando aprì la porta per poco non stramazzò a terra. Allora Stan capì.
E’ ubriaco fradicio, pensò, gli sento la puzza dell’alcol fino a qui. Al Bowers
si appoggiò al muro, «Emily! Spero per te che mi abbia preparato qualcosa!».
Emily si affacciò dalla porta della piccola cucina per dire: «Pollo con patate,
Al. Spero tu sia affamato.» Il marito si spostò verso la TV. «Ma sicuro Emily.
Mi mangerei di tutto, anche un bambino! Ah! Ah!» e guardò con un ghigno Stan,
seduto sul divano.
«E’ pronto!» vociò Emily. Al raggiunse trotterellando la cucina. Era
sempre più ubriaco.
«Ma che brava la mia bambina!» le toccò i capelli. In quell’istante
anche Emily si accorse delle condizioni in cui si trovava il marito. Ma non
doveva essere al lavoro? Allora perché diavolo è così sbronzo!
Al si accomodò al tavolo e cominciò a sgranocchiare la cena. Agli
occhi di Stan pareva un leone che sbrana una gazzella nel cuore della savana.
Quella di Al fu solo un’assaggio, perché subito dopo si alzò dalla
sedia e guardò in malo modo la moglie.
«Che c’è Al? Sei già sazio?» gli chiese lei, cercando di non far
trasparire la sua paura. Il marito afferrò il piatto, «Vuoi sapere se sono
sazio? O forse vuoi sapere se mi è piaciuta la cena?», la sua espressione si
fece più grave, Ecco che cos c’è!»,
sollevò il piatto e lo scagliò contro il muro dove si disintegrò facendo volare
cocci e pezzi di pollo. «La tua cena faceva letteralmente SCHIFO!». Dicendo
questo camminò verso la moglie, fino ad avercela di fronte. «Come ti sei
permessa di darmi quella roba? Quella MERDA! Mi hai preso per un maiale? O per
un cane? Perché se è così ci metto poco a sbranarti!». La sua bocca profumava
di alcol come non mai.
Emily fece due passi indietro e
cominciò a piangere. «Scusami, scusami! Sono stata una stupida, non avrei mai
dovuto prepararti il pollo! Sapevo che non ti sarebbe piaciuto! Mi dispiace!»
«Mi dispiace, mi dispiace» fece Al, facendole il verso, «MA CHE CAZZO
TI DISPIACE! NON DIRE STRONZATE! PUTTANA!». E in quel momento, lui la colpì. Fu
lo schiaffo più forte che le avesse mai dato. La sua mano sbattè in maniera
incredibile sul suo viso, lasciandole una chiazza rossa enorme sulla guancia. E
poi cadde a terra.
Stan intanto si era riparato dietro la televisione, con le mani nella
bocca per impedirsi di urlare.
Al si voltò verso il figlio: «Che cos’hai da guardare brutto
finocchio!». Quello non è papà. No. Non può essere lui. «Stavi guardando le
stronzate, non è così?», afferrò la TV con un’incredibile forza che neanche lui
sapeva da dove venisse, «Ecco la tua CAZZO DI TV!» e la scagliò verso il
figlio. Stan, come un marine, rotolò dall’altra parte giusto in tempo per
evitare di essere ucciso da ciò che amava, la TV, ma anche da suo padre.
Emily si era rimessa in piedi. «Scappa Stanley! Vattene via!».
«Sta zitta!». Al afferrò il figlio per i capelli e lo portò in cucina,
scagliandolo a terra. Poi andò alla porta d’ingresso e la chiuse con una chiave
che si mise in tasca.
«Stanley, tesorino mio, devi stare fermo perché adesso io e la mamma
ci facciamo una bella chiacchierata, non è vero Emily?».
«Non dargli ascolto Stan, vattene! Devi chiamare la pol...», Al le sferrò
un pugno allo stomaco. «Ti ho detto che non devi aprire quella lurida topaia
che hai al posto della BOCCA!».
Stan tremava e tremava, gli pareva di essere in Siberia steso
all’aperto a morire di freddo. Aveva paura. La paura che aveva avuto del padre
altre volte era niente in confronto a quella che Al gli infondeva adesso.
«Oggi non è giornata, Emily. Sono incazzato. INCAZZATO! E lo sai
perché?», la faccia di Emily si sollevò un poco, P-Perché?».ù
«Mi hanno licenziato. Stop. Chiuso. Abbiamo finito. Siamo fottuti.
Morti. Possiamo seppellirci. E la colpa di chi è? Tua! Soltanto tua. Se solo ti
fossi cercata un lavoro, anche lurido! Ma un lavoro, cazzo! Adesso non saremmo
in queste condizioni! Con me licenziato tu avresti lavorato. Avresti continuato
a portare i soldi a casa! Per sfamare noi e quel pezzo di merda!» e puntò il
dito verso Stan. «Al... tesoro... non è il caso che ti arrabbi fino a questo punto.
Troveremo una soluzione.»
«Troveremo una soluzione? Ma dove
cazzo vivi? Non c’è una soluzione! L’unica cosa che possiamo fare è morire!».
Poi si guardò intorno ed esclamò: « Ma forse c’è la soluzione. Ho trovato. Vi
ucciderò. Anzi, ucciderò tutti e tre. Mi piace, è una splendida idea.
Complimenti Al, hai vinto un milione di dollari! ». Emily si accorse che era
totalmente partito, ed ebbe paura. Perché in quelle condizioni Al Bowers
avrebbe messo in pratica la sua pazza idea e le balenò un unico pensiero nella
mente: devo portare Stan fuori di qui, dobbiamo andarcene o addio vita. Si girò
e trovò lo sguardo del figlio. Si capirono subito.
«Dove diavolo l’ho messo il Winchester a ripetizione, eppure era qui.».
Emily era sempre più preoccupata. Allora vuole fotterci col suo caro fucile. Se
noi non fottiamo prima lui. Quando vide il marito piegato per cercare il
fucile, decise di agire. Si alzò in piedi con uno scatto e raggiunse in un
batter d’occhio Al. Si scagliò contro di lui. «Maledetta PUTTANA!», urlò lui,
cercando di togliersela di dosso. Emily non aveva idea di cosa lei stesse
facendo. Aveva agito per puro istinto animale. Al però era più razionale di lei.
Trovò li vicino una bottiglia di vetro vuota, prima conteneva la sua adorata
birra, e la scaraventò in testa ad Emily che mollò la presa in stato
confusionale, non svenne, ma era lo stesso.
Al tutt’a un tratto ricordò
l’ubicazione del fucile (sotto l’armadio) e lo prese stringendolo fra le mani.
Lo caricò e mirò alla testa della moglie che si trovava in ginocchio. «Hai
finito di vivere!». Poi si bloccò. Restò immobile. Il fucile gli cadde dalle
mani e si portò una mano dietro la schiena. Si sentiva qualcosa infilato nella
sua povera carne. Ma che diavolo era? Poi capì. Era come svegliarsi da un sonno
profondo. Il figlio, il caro, buon vecchio Stanley, lo aveva pugnalato. Il
sangue gli corse a fiottoli lungo la camicia.
Riuscì a dire solo una parola, «Bas-tar-do...» poi svenne. Emily
riprese coscienza di sé e guardò Stan. Si abbracciarono.
«Sei stato bravo Stan, molto bravo. Ora aiutami. Dobbiamo andarcene il
più presto possibile di qui.». Stan aiutò la madre a issarsi in piedi. Sorrise.
Era felice. Dopo quell’inferno era di nuovo felice. Fecero un paio di passi,
risero. Forse per quello o per la confusione nelle loro menti non sentirono Al
Bowers che impugnava di nuovo l’arma e faceva fuoco.
Una fucilata colpì Emily in piena schiena. Cadde a terra. Il pavimento
diventò subito dopo una piscina di sangue. Al aveva ancora un proiettile e
sapeva contro chi usarlo. Ma Stan lo anticipò. Si gettò con un balzo dietro il
divano. Al si mise in piedi, sebbene con un coltello da cucina che gli
penzolava dietro. Brandendo il fucile, passò dietro il divano, pensando di
trovare il figlio accucciato con le mani in faccia, ma non fu così. Stan era
dietro di lui. Lo aveva aggirato senza il minimo rumore. Al, dopo essersi
voltato, notò che il figlio impugnava una pistola e gli scappò da ridere.
«Che diavolo è quella cosa?»
Stan rispose in una maniera che Al non si sarebbe mai aspettato. « Era
della mamma. Penso che la tenesse per queste occasioni. Queste liti contro un
cane rognoso che non merita di vivere. »
«Non ti azzardare a parlare così a tuo padre!»
«Tu non sei mio padre... sei un demonio!»
«Demonio. Demonio. Mi sembra che le lezioni di catechismo di tua madre
ti abbiano spappolato il cervello!»
«Non parlare così di mia madre!»
«E perché? Se non fosse stato per me tu e quella puttana sareste già
morti!»
«Puttana?»
«Si, puttana. PUTTANAPUTTANAPUTTANAPUTTANAPUTTA...», poi un proiettile
perforò la fronte di Al Bowers, che finalmente fece tacere per sempre quel
cervello andato ormai a male.
Ora erano i compagni a invidiare
qualcosa a Stan: il suo coraggio e la sua pistola.
E ogni fine settimana si
recavano in gruppo a trovarlo, nella cella 23 del penitenziario di Los Angeles.
Gabriele Incollu